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20 Aprile 2024

Un dramma soprattutto italiano


(Massimiliano Fabbri) Grosseto, 9 febbraio 2019 – La complessità delle vicende dell’Adriatico orientale richiedono approfondimenti adeguati, al fine di trasmettere nella società civile i concetti di tolleranza, accoglienza e giustizia, quanto mai necessari ancora e soprattutto oggi. Il dramma patito dalla pulizia etnica – avvenuta, prevalentemente, nei due decenni post-bellici nella ex Jugoslavia – a danno delle popolazioni di lingua italiana, rappresentano ancora un elemento non sufficientemente conosciuto in Italia, ovvero in quella patria per cui i nostri avi hanno lasciato le terre natie per non negare la propria appartenenza nazionale.

D’altro canto dobbiamo dolorosamente registrare, sovente, un palese intento nel celare i fatti storici accaduti, magari giustificandoli come assurda reazione, in tempo di pace, ad altri soprusi ed altri drammi avvenuti in tempi di guerra. La persecuzione dovuta all’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, di Fiume e di Zara, che procurò migliaia di vittime, fu una vera pulizia etnica tramite l’infoibamento. Vi è stata una commissione congiunta italo-slovena dal 1993 al 2000 che non ha esitato esattamente il numero degli infoibati. Sistema poi ripetuto della pulizia etnica durante la guerra jugoslava dal 1991-95.


L’infoibamento era di gettare persone legate tra di loro con i fili di ferro negli imbuti carsici profondi sino a 300 metri, tra esse anche di etnia slava in quanto non comuniste. Il conseguente esodo di 350.000 Italiani di quelle regioni (di cui centinaia di etnia slava) con i vari flussi intensi almeno dal 1943 al 1954 (zona di Muggia mini esodo di 3.000 persone circa, 1954, quando Trieste tornò sotto il tricolore) ha un suo antecedente storico nel precedente esodo (1921) di molte decine di migliaia di Italiani dalla Dalmazia dopo la rinuncia ad essa, prima occupata dalle truppe italiane a seguito della fine del Primo conflitto mondiale e poi evacuata dopo il trattato di Rapallo del novembre 1920 con cui l’Italia si privava della Dalmazia a favore della Jugoslavia, esclusa Zara. E si badi bene, nonostante alcune ricostruzioni austriacanti e filo-asburgiche, gli italiani di Dalmazia avevano subito dal 1866 al 1918 un crescente processo di marginalizzazione e discriminazione da parte delle autorità asburgiche, in combutta coi nazionalisti croati. Tentativo non riuscito, allora in Istria e Fiume. Questo per dire che non fu col trattato di pace del 1920 che si crearono i problemi nelle relazioni italo-slave, ma la politica del “dìvide et ìmpera” asburgico e il nazionalismo croato, già dal 1866 anche con la slavizzazione dei cognomi italiani.


Le fasi essenziali della percezione e della narrazione del dramma degli esuli istriani, fiumani e giuliano-dalmati da parte della cittadinanza italiana e dei media, che molta parte hanno nella costruzione di questa coscienza collettiva, sono tre.

Prima fase, immediatamente successiva a Parigi 1947. Gli esuli tornano in Italia e vengono bollati come fascisti. Non sono italiani, ma fascisti. Invece, come recita il titolo di un libro, “ci chiamavano fascisti, ma eravamo italiani”. La guerra ha i suoi eroi, talvolta costruiti in laboratorio, ed i suoi sconfitti. Ecco, gli esuli escono sconfitti due volte dalla guerra: perdono come italiani e come persone. La loro storia diventa, a quel punto, oggetto di attenzione storiografica e non occasione di rilettura della coscienza nazionale: la ferita del post-Parigi ’47 è tutta qui. Una parte della storiografia ci riporta che l’esordio della guerra fredda è iniziata dopo Parigi 1947. Inoltre rammentiamo che a Josep Broz Tito è stato insignito nel 1969, “cavaliere di Gran Croce Ordine al merito della Repubblica Italiana” con l’aggiunta del Gran cordone, il più alto riconoscimento previsto. Questi sono i paradossi della storia e delle democrazie.
Ad oggi la strage di Vergarolla, località balneare nei pressi di Pola, del 18 agosto 1946, i servizi segreti inglesi addebitano tale evento a Tito, trattandosi del primo attentato terroristico in territorio italiano, facendo alimentare l’esodo forzato della comunità italiana dall’Istria.

Seconda fase, crollo del Muro di Berlino. Dal 1989 si aprono ferite e dunque feritoie, spiragli di rilettura della storia del ‘900. Il comunismo titino viene incluso nel grande contesto del comunismo internazionale e dell’impero sovietico. Le foibe sono i nuovi detonatori della coscienza collettiva intorno al crollo dell’ideologia e dell’impero comunista. Una lunga fase che non ha avuto sequenze lineari, come sempre nella storia, anche la più recente, ma ha portato all’oggi, in qualche modo.

Terza fase, i cosiddetti rimasti che in questi anni hanno avuto il lodevole compito di preservare la cultura e quell’italianità sino ad occuparsi anche delle tombe dei cari defunti degli esuli e di essere quel punto di riferimento. Dal 2004 ai nostri giorni. L’attuale presidente Mattarella, come il suo precedessore Napolitano, sostiene la promulgazione della legge 92 del 2004, firmata da Ciampi, ossia la Giornata della Memoria e il Giorno del Ricordo e noi siamo qui per quest’ultimo il 10 febbraio.

Si apre una fase di iniziali coscienza e memoria condivise. Obiettivo: rendere quel dramma degli esuli non un caso nazionale, ma l’occasione per ripensare il ‘900, i suoi drammi sconosciuti, ma decisivi per noi, e ripensare l’identità nazionale, in una fase di crisi della medesima. Un progetto ambizioso, di cui la comunità degli esuli, dei suoi dirigenti, intellettuali e militanti si è fatto carico. Spetta ad altri stabilire se e quanto questo obiettivo si sia realizzato, fatto sta che la ripresa di questo percorso alla luce del ripensamento dell’identità nazionale è e resta la matrice unitaria e maggiormente generativa del progetto dell’intera federazione degli esuli, ancorché vi siano differenze di approccio e sensibilità personali e culturali diverse. E oggi? Dove siamo? Dove andiamo? Cosa possiamo fare, insieme? La scuola ha un ruolo importante se non decisivo, a tutt’oggi molti libri di testo non contemplano gli argomenti foibe, esodo e cultura della sponda orientale dell’Adriatico.
Urge certamente rileggere la memoria di un popolo lacerato da questo trauma, una comunità intera di italiani, che ha vissuto in territori di fatto anche oggi culturalmente italiani e strapiena di italofoni personalità spesso di vasta cultura e orgogliose di appartenere alla civiltà italiana, che viene ben prima dello stato e della statualità che la organizza in comunità di diritto; priorità è, cioè, ripensare la memoria come sponda per un futuro, che non può che essere collocato nel cuore delle istituzioni – prova ne sia che siamo qui, in un’assemblea regionale, in seduta solenne – e non può che trovare sbocco nella cornice dell’educazione, dunque delle scuole e della politica. Non si tratta soltanto di sapere di più delle Foibe (in particolare dal ’43 al ’45) – il che è conditio sine qua non, diciamolo pure -, ma di tenere in mano il bandolo della matassa della storia del ‘900, appassionandosi alle vicende di ogni parte di Italia, anche di questa parte così negletta in passato e oggi così carica di significativi segnali di un futuro progressivamente condiviso.

Massimo Fabbri, ricercatore storico, è esperto di Storia del confine orientale italiano