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19 Marzo 2024

Un particolare del manifesto dell'operita Maria de Buenos Aires (foto d'archivio)

Un giorno che Dio era ubriaco nacque Maria de Buenos Aires, al Goldoni


(Angela Simini) Livorno, 29 giugno 2021 – Maria de Buenos Aires, nata nei sobborghi poveri di Buenos Aires “un giorno che Dio era ubriaco”, ha portato sul palco del Teatro Goldoni il suo portato di vita travagliata dalla prima infanzia fino alla giovinezza trascorsa nelle balere, dove canta e danza il tango, fino alla morte violenta, alla successiva resurrezione, al parto e ad una seconda morte. Una storia intrisa di vita, di violenza, di prostituzione, di musica, di dolcezza e di sensualità che ha trovata il suo compendio e simbolo in una bara esposta, all’ingresso del pubblico, davanti al sipario chiuso, con una statuetta della Madonna e ceri accesi al lato, esplicito segnale dello spirito dell’opera. Ed è una bara nella quale Maria muore, rinasce e partorisce per poi morire ancora una volta. Una storia misteriosa e avvincente, quasi incredibile, ma che nel dipanarsi dell’opera ha finito per convincere, tanto sembrava vera e aderente al misero mondo dei sobborghi di Buenos Aires, ma anche a quello di tante altre città.

L’Operita Tango Maria De Buenos Aires, unica opera composta da Astor Piazzolla, testo di Horacio Ferrer, allestita nel centenario della nascita del musicista argentino dal Teatro Goldoni, in coproduzione con Piccolo Opera Festival del Friuli, ha debuttato per la regia di Alessio Pizzech che, con opportuni tagli, ha dato una lettura snella della storia, asciutta, essenziale, eliminando il ballo dalla scena e scegliendo pochi personaggi: Maria, la giovane mezzosoprano Arianna Manganello, il baritono Giacomo Medici nel ruolo del cantante gaucesco e il bravissimo attore Gianluca Ferrato, nel ruolo
di Duende, lo spirito che narra, che seduce Maria, che tesse le vicende. Ognuno di questi attori ha avuto il merito di calarsi nella parte e di agire in parte, qualità mai così scontata, soprattutto nei cantanti che devono modellare la voce sul canto e sul testo. In scena gli undici musicisti col direttore, Igor Zobin, che ha ricoperto anche il ruolo di personaggio per non essere fuori contesto. Dunque non c’è stata orchestra, non c’è stato il coro e nemmeno la danza: nessuna concessione a quegli elementi che di per sé facilitano la fruizione di un dramma musicale. Stavolta, come nelle intenzioni del regista, l’opera deve essere scavata, ci deve portare nella profondità del tango di Piazzolla, che non si balla, ma si ascolta e si medita. I musicisti disposti come suonatori di balera in due ripiani hanno fatto corpo unico con la scena, perfettamente fusi col contesto dell’ opera : Annamaria Fornasier e Sergio Martinoli al violino, Marta Degl’Innocenti alla viola, Lucio Labella Danzi al violoncello, Stefano Di Martino al contrabbasso, Eleonora Donnini al flauto, Michele Ceccarini alla chitarra , Massimo Signorini alla fisarmonica, Giacomo Riggi alle percussioni , Gabriele Ciangherotti alle percussioni, Cesare Castagnoli al pianoforte. Sotto guida di Igor Zobin, il complesso ha fatto scorrere la straordinaria musica di Piazzolla con tante sfumature in un flusso continuo, dando la sensazione di una sinfonia, moderna magari, ma di una sinfonia narrante, intensa, che, come la parola in poesia, scava nell’anima. E’ emerso in tutto il suo fascino il Tango Nuevo di Piazzolla, sottratto all’occasionalità del ballo e arricchito di contaminazioni Jazz, Klezmer, e dalla musica classica contemporanea.
In proposito, chi fosse interessato all’argomento, è uscito un libro molto ricco e dettagliato sul compositore “Astor Piazzolla: una vita per la musica”, scritto da Susana Azzi, edito da Sillabe e Opera Laboratori, che è stato in vendita nella hall del teatro nelle tre sere di rappresentazione. Frutto di oltre 250 interviste, il libro ci porta la voce di Daniel Barenboim, Kronos Quartet, Al Di Meola, Tonino Guerra, Milva, Placido Domingo e tanti altri.

La Maria De Buenos Aires nel complesso è stata un’operazione coraggiosa e assai apprezzabile, degna di circuitare in altri teatri e della quale essere grati ai curatori.

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