Gli effetti dell’innovazione tecnologica
19 Febbraio 2018
(Gino Fantozzi) Livorno, 18 febbraio. Come una valanga l’obsolescenza tecnologica colpisce tutte le economie. E come una corsa affannosa tutte le economie rincorrono, chi più chi meno, la ricerca e l’ innovazione del proprio apparato produttivo. Non c’è scampo. Con una velocità mai vista. Lo scambio continuo di informazioni accresce questa esigenza, e se un Paese non corre a sufficienza su questo obiettivo, se addirittura si chiude in sé sperando così di contrastare la conseguente concorrenza dei prezzi e della qualità dei prodotti, vivrà il tempo appena sufficiente per rendersi conto di soccombere. E’ così, come è sempre stato fin dagli inizi dell’epoca moderna, dobbiamo anche dire che i livelli occupazionali ne risentiranno per il tempo necessario alla riconversione economica del Paese, qualunque Paese esso sia.
Questo significa che di fronte alla modifica dell’assetto occupazionale devono essere apprestati i giusti interventi da tutte le istituzioni pubbliche e private, perché dall’assestamento occupazionale all’assestamento produttivo la ripresa economica si realizzi nell’interesse di tutti.
Quando negli anni settanta dello scorso secolo si discuteva sul grafico ad “U” rovesciata di Cambridge, nel quale grafico si poteva verificare visivamente l’andamento decrescente degli addetti all’industria (come nel periodo precedente si poteva misurare lo stesso andamento degli addetti all’agricoltura) si aprivano, praticamente proprio in virtù della innovazione tecnologica nelle imprese, due fasi: la prima quella della terziarizzazione delle economie sviluppate e la seconda quella della flessibilità del rapporto di lavoro.
Da qui la necessità di accompagnare tale processo con l’investimento nel terziario qualificato (fino ad allora il terziario veniva pressoché identificato con il commercio e la distribuzione) e nella formazione, per rafforzare in questo modo la forza lavoro nei suoi sempre maggiori passaggi di competenze.
Fu quello un dibattito che durò diversi anni, fin quasi agli inizi degli anni novanta quando Jacques Delors (unico importante Presidente che la Commissione europea abbia avuto) lanciò il suo “libro bianco” nel quale indicava tre linee strategiche per portare l’Europa al passo con le altre grandi aree sviluppate del globo di allora (nord America e Giappone): maggiori investimenti in Ricerca e Sviluppo, maggiori investimenti per le imprese innovative terziarie (credito, informatica, biomedica, ecc.), maggiori investimenti nella scuola e nella formazione.
Da lì a poco l’Europa, diretta più o meno da Governi conservatori, ha abbandonato questa strategia, mentre gli altri Paesi correvano con maggior vigore verso l’innovazione tecnologica e lo sviluppo e tra questi in maggior misura la Cina.
Oggi nessuno mette più in dubbio la necessità di andare avanti sulla innovazione tecnologia in tutti i settori, meno sulla necessità di una maggiore formazione per rafforzare il potere contrattuale della forza lavoro. Come meno si comprende la necessità di aiutare (specialmente in Paesi come il nostro con una presenza massiccia di welfare) la nascita e lo sviluppo di nuove imprese magari più “labour intensive” come per esempio quelle del terzo settore, viste spesso come un sotto settore “produttivo”, quando invece la necessità di produrre servizi altamente qualificati è funzionale alla stessa società.
Per ultimo un richiamo al sostegno da dare all’occupazione. Lo sviluppo dell’occupazione passa soprattutto in epoca di flessibilità (non parliamo per favore di precariato che è un’altra cosa e che deve comunque essere combattuto), che è prima di tutto una flessibilità delle imprese dovuta proprio alla innovazione tecnologica e dei suoi conseguenti assetti organizzativi, quello di perseguire la costruzione di un sistema economico fondato sui “lavori”. Solo allora il periodo di disoccupazione potrà essere limitato nel tempo e aiutato dalla formazione e dai sostegni economici. Non si può parlare di flessibilità del lavoro se non si mettono in campo assieme alle politiche attive anche le politiche passive e cioè aiuti significativi a chi perde un lavoro o a chi cerca attivamente un’occupazione. Era quello che Marco Biagi aveva previsto nel suo schema di riforma del mercato del lavoro ma che nell’appropriarsene, fu disconosciuto dal “libro bianco” adottato dal Governo Berlusconi. Si persegue quindi un vero sviluppo economico e sociale con l’innovazione tecnologica solo se a questa si accompagna una politica per l’occupazione fondata su aiuti mirati ad attenuare gli effetti della flessibilità sui lavoratori. fantozzigino@gmail.com
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