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8 Ottobre 2024

La storia di un confine difficile: la Risiera di San Sabba


Per non dimenticare “Costa Ovest” pubblica la cronaca di questa testimonianza.
Trieste, 14 febbraio. Appena scesi dal pullman gli studenti toscani in visita didattica a Trieste si affacciano nall’opprimente, freddo, alienante ingresso monumentale della Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento e di sterminio nazista presente in Italia. Un corridoio lungo e stretto, pareti di cemento alte forse 20 metri che offrono un attimo di sollievo solo se si porta lo sguardo in alto, dove appare all’improvviso un cielo blu intenso.

Agli inizi del Novecento dalla Risiera di San Sabba partivano verso il Mediterraneo migliaia di sacchi di riso, lavorato e pronto per essere cucinato e mangiato. Poi, a partire dall’8 settembre 1943, diventò un campo di prigionia nazista per i militari italiani catturati dopo il crollo del fascismo, subito dopo fu destinato allo smistamento dei deportati diretti in Germania e Polonia, al deposito dei beni razziati e alla detenzione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Particolarità unica per il nostro paese, dall’inverno del 1944 venne messo in funzione anche un forno crematorio in grado di bruciare 80 cadaveri alla volta.

Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i rastrellati passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager o al lavoro obbligatorio. Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori quadri della Resistenza e dell’antifascismo.

Accompagnano la visita gli storici e ricercatori Giorgio Liuzzi e Dunja Nanut che dedicano la parte introduttiva alla ricostruzione del processo ai responsabili nazisti del campo, concluso a Trieste nell’aprile 1976 a oltre trent’anni dai fatti. Si arriva al processo solo per iniziativa tedesca, quando si iniziano a seguire le tracce dei protagonisti dell’Operazione eutanasia contro persone affette da disturbi mentali e fisici, in nome di una presunta “igiene razziale” e si scopre che parte del gruppo ha operato anche a Trieste, proprio all’interno della Risiera.

Sul banco degli imputati, tra gli altri, due nazisti: Joseph Oberhauser, comandante della Risiera, un birraio di Monaco di Baviera, e il suo diretto superiore, l’avvocato August Dietrich Allers di Amburgo. Il primo, per cui l’Italia non ha mai chiesto l’estradizione dopo la condanna all’ergastolo, continuò a vendere birra indisturbato fino al termine della sua vita. Il secondo morì prima di essere condannato. Al processo per i crimini della Risiera di San Sabba il banco degli imputati rimase quindi vuoto: parecchi di essi erano stati giustiziati dai partigiani, altri deceduti per cause naturali.

Il processo consentì però di fare chiarezza su quanto avvenne tra quelle mura tra il 1943 e il 1945. Simon Wiesenthal, l’ebreo che dedicò tutta la sua vita a cercare i responsabili dei crimini nazisti dichiarò in merito al processo: “Non è solo un’esigenza di giustizia, ma anche un problema educativo. Tutti devono sapere che delitti come questi non cadono sul fondo della memoria, non vengono prescritti. Chiunque pensasse ad un nuovo fascismo deve sapere che, alla fine, sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente”. Lo storico Elio Apih definì la Risiera “Un microcosmo delle forme e dei modi della politica nazista di repressione dove ebbero luogo l’applicazione della tecnica della deportazione politica e razziale, l’applicazione delle tecniche e dei metodi di eliminazione e atti di violenza propri della logica delle SS insieme allo sfruttamento della forza lavoro dei prigionieri”.

I ragazzi hanno poi visitato il complesso divenuto monumento nazionale nel 1965. Hanno visto la cella della morte in cui si raccoglievano i prigionieri destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Hanno visto, subito dopo, anche le 17 microscopiche celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri. Erano riservate particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane.

Nell’edificio di tre piani erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché le camerate per gli ufficiali e i militari delle SS. In quello a quattro piani venivano rinchiusi gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. Tra coloro che si sono salvate due conoscenze care per chi frequenta le iniziative dedicate alla memoria in Toscana: Andra e Tatiana Bucci, due sorelle ebree passate dalla Risiera prima di essere deportate ad Auschwitz per finire come cavie per gli esperimenti condotti dal dottor Joseph Mengele. Fortunatamente non mise loro le mani addosso e oggi, a distanza di tanti anni, possono ancora raccontare la loro esperienza alle giovani generazioni affinché non s i ripeta.

Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio che venne distrutto con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono.

“Per la storia di un Confine difficile. L’Alto Adriatico nel Novecento” è il titolo del viaggio di studio per gli studenti delle scuole superiori toscane organizzato in occasione del Giorno del ricordo da Regione Toscana, Istituti storici toscano e grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca – Ufficio regionale per la Toscana.

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Da www.toscana-notizie.it