Il coronavirus, gli anziani e Livorno
9 Aprile 2020
(Ettore Bergamini*) Livorno, 9 aprile 2020 – L’epidemia ormai sta volgendo al termine. Fra un mese o poco più diremo che è stata domata. Quindi ormai già è tempo di discutere il ruolo dei protagonisti sul piano medico (fattori ambientali, agente infettante e difese dell’organismo) e di fare alcune considerazione generali.
Il coronavirus? Lo vediamo come il virus oggi più noto, temuto ed odiato in tutto il mondo. Eppure è vero il contrario. Virus neonato e non ancora bene ambientato è in realtà un virus mite, con l’unico desiderio di vivere e prosperare in silenzio nelle nostre prime vie respiratorie senza darci alcun danno (lo fa in oltre il 99 per cento delle persone: i portatori sani, che senza saperlo gli danno gambe e lo portano a spasso per il mondo).
Per fare male, e può farlo, ha necessità dell’aiuto del nostro corpo. Infatti i guai cominciano nei rari casi (uno su mille?) in cui il virus sconfina in massa dalle prime vie respiratorie avventurandosi in profondità, trovando a livello bronchiale e polmonare un terreno ancora più propizio. Proprio questo è il momento in cui il nostro organismo, percepita la sua presenza, reagisce al virus con una risposta immunitaria, forse non bilanciata a favore delle immunoglobuline opsonizzanti (IgG, IgM) che, diversamente dalle IgA, non servono ad espellere il virus ma cercano di eliminarlo reclutando alla fagocitosi i numerosissimi macrofagi polmonari.
Negli individui che albergano nel polmone abbondante materiale antigenico (una popolazione virale importante) all’arrivo di quantità crescenti di anticorpi opsonizzanti (a 7-14 giorni dall’infezione, la latenza della risposta immunitaria primaria) facilmente verranno raggiunte le proporzioni necessarie per l’induzione di un fenomeno infiammatorio grave indicativo di una ipersensibilità di tipo Arthus. La formazione massiva di immunocomplessi con attivazione del complemento libera mediatori del processo infiammatorio e induce simultaneamente alla fagocitosi i numerosissimi macrofagi alveolari, causando una produzione gigantesca di radicali liberi, uno spandimento di enzimi lisosomiali tale da sopraffare le pur valide difese anti-proteasi del tessuto, nonché la produzione di enormi quantità di mediatori della infiammazione acuta.
Si genera quindi un processo infiammatorio acutissimo ed esteso, che ovviamente compromette lo scambio gassoso e fa precipitare la saturazione di ossigeno del sangue analogamente a quanto accade in uno shock. Il pericolo può indurre il medico ad una ossigenoterapia generosa che, se prolungata troppo a lungo e non ben graduata per intensità, può aggiungere altra tossicità (tossicità da ossigeno) danneggiando ulteriormente un tessuto già provato dal processo infiammatorio.
Questo quadro di patologia generale consente deduzioni di convalida e/o implementazione degli interventi terapeutici già applicati, spesso con successo (il numero dei guariti supera assai quello dei morti) e di individuare la loro più conveniente collocazione temporale nel breve e drammatico corso della malattia.
Innanzi tutto certamente è efficace la cura della persona e del suo stato anti-ossidante prima del contagio (i medici potranno forse sorridere, ma pur non essendo farmaci le diete ricche di colori sani, da frutta e verdura, e la somministrazione di nutraceutici complessi possono essere utili a rendere più forti anche contro il coronavirus). Certamente da approvare in maniera incondizionata è lo sforzo in atto di contrasto al contagio, quanto meno per ridurre la carica infettante e rallentare il suo sviluppo a livello polmonare e ridurre così la quantità di antigene che sarà presente nel tessuto al tempo dell’arrivo della risposta immunitaria.
All’insorgenza della patologia l’intervento terapeutico potrebbe giovarsi di un tempestivo, ragionato impiego di modulatori o soppressori della risposta immunitaria, di una moderazione della capacità opsonizzante delle IgG e IgM anti-corona.virus (ad esempio, con la somministrazione di immunoglobuline G non specifiche in elevata quantità per saturare i recettori dei macrofagi), e soprattutto di farmaci lisosomotropici o comunque moderatori della fagocitosi (ad esempio clorochina, colchicina) e di farmaci antiinfiammatori (steroidei e non steroidei), meglio se il tutto sarà intelligentemente combinato. Anche in questo momento, la teoria dice che la somministrazione di preparazioni antiossidanti (polifenoli e resveratrolo, curcuma, vitamina E) a dosaggio elevato dovrebbe poter migliorare la prognosi, aiutando a contenere il danno dei tessuti causato dai ROS.
Molti altri aspetti della patologia meritano un commento. La storia del paziente numero uno riferita dalla stampa merita un commento su come una patologia così grave possa essere improvvisamente comparsa in un soggetto relativamente giovane (solo 38 anni) che nell’immediata precedenza godeva di ottima salute e attività. Nei giorni prima del ricovero l’uomo era in Cina (dove forse ha avuto un primo contagio); ritorna e per qualche giorno fa una vita sociale intensa (si intrattiene a lungo con molti amici; che tra di loro ci fossero portatori in grado di aggiungere contagio al contagio?); gioca poi al calcio con amici impegnandosi a fondo (entra in contatto stretto con più persone nel mentre respira a fondo, probabilmente a bocca aperta, aria inquinatissima e fredda).
Come non pensare a contagi multipli ravvicinati con effetti additivi sulla carica infettante, e ancor più sulla quota virale giunta a livello alveolare? Che la polipnea della partita abbia favorito l’arrivo del virus al polmone nel mentre l’immunizzazione primaria faceva il suo corso? Si ricordi a proposito la accurata descrizione che l’ormai storico trattato di Walter e Israel fa delle trappole antibatteriche e antivirali che proteggono efficacemente (ma mai al 100 per cento) le vie respiratorie e il polmone dalle infezioni aero-diffuse. Interessante, anche per l’analogia con il fenomeno di Arthus, il fatto che il paziente abbia avvertito qualche disturbo prodromico, tanto da recarsi all’ospedale un paio di giorni prima del ricovero definitivo (la risposta anticorpale stava montando ma non aveva ancora raggiunto il livello critico).
Si noti a proposito che la storia della epidemia sulla portaerei Roosvelt costata il dimissionamento al comandante dimostra che contagi multipli crociati in condizioni di superaffollamento possono far crescere la carica virale infettante al punto da causare malattia anche in una popolazione giovanissima e per definizione in ottimo stato di salute (tutti militari abili e arruolati).
Resta da discutere in primo luogo il perché la mappa del contagio e della gravità della malattia si sovrapponga esattamente alla distribuzione dell’inquinamento dell’aria da particelle fini. Molti sono i fattori che possono sovraccaricare di virus il polmone e favorire l’infezione. Fra questi certamente l’entità della carica infettante, ma ciò che più importa è l’entità della carica che giunge al polmone. Walter e Israel2 ci hanno spiegato che la capacità di depurazione delle vie respiratorie ha un massimo limitato (nella filogenesi la funzione fu ottimizzata per fronteggiare polverosità di intensità molto inferiore a quelle del mondo attuale) e che le nostre difese non distinguono tra materiali biologici potenzialmente pericolosi e le particelle inerti, che pure hanno effetti irritanti nocivi sulla funzione muco-ciliare. Ben si comprende quindi come il mescolamento con quantità elevate di polveri inerti possa aumentare il numero delle particelle virali che riescono a eludere la rimozione e a proseguire fino agli alveoli polmonari.
Altro punto importante, soprattutto per i geriatri. Perché le persone anziane che si ammalano muoiono più frequentemente? Teoricamente non si può escludere che la riduzione della efficienza dei meccanismi di decontaminazione delle vie respiratorie3 e il pur piccolo rallentamento delle risposte immunitarie primarie possano giocare un ruolo favorevole al raggiungimento delle condizioni necessarie per lo scatenamento di un fenomeno tipo Arthus. Certamente però non può non avere un ruolo fondamentale l’affievolimento con l’età della capacità delle riserve di tutte le funzioni (respiratoria, cardiocircolatoria, renale) che aiutano a sopravvivere ad un fenomeno infiammatorio grave ed esteso. Ciò fu magistralmente illustrato J.W. Rowe prendendo ad esempio la mortalità per shock da ustione in funzione dell’età e della superficie ustionata: con le terapie attuali, in caso di ustione estesa al 30% della superficie corporea praticamente tutti i pazienti di età compresa tra 5 e 34 anni sopravvivono nel mentre praticamente tutti i pazienti di età compresa tra 75 e 100 anni muoiono.
Se così stessero effettivamente le cose, perché non tener in conto l’età del paziente nell’aggiustare le terapie, e non autorizzare la presenza di una consulenza geriatrica nelle sale di terapia intensiva?
Altro aspetto meritevole di considerazione. Perché l’infezione da coronavirus è meno grave e pericolosa nelle donne (le statistiche dimostrano che la mortalità da coronavirus dei maschi è quattro volte superiore a quella delle femmine, pur essendo l’età media delle donne superiore a quella dei maschi)? Naturalmente, le cause possono essere molte, e possono esercitare il loro effetto a più livelli, dall’esposizione al rischio di contagio (le donne anziane sono più propense a una vita domestica, e ad una socialità diversa rispetto ai coetanei maschi) alla capacità di reazione al danno (è ben noto che a parità di età anagrafica le donne sono biologicamente più giovani, grazie alla maggiore efficienza dei principali meccanismi protettivi: la autofagia e la apoptosi). Però potrebbe non essere trascurabile l’effetto di differenze anatomiche e funzionali tra i due sessi rilevanti per il contagio: i maschi inalano maggiori volumi di aria (e quindi maggiori quantità di inquinamento particolato e di particelle virali) e le loro vie respiratorie lasciano penetrare a fondo più facilmente le particelle virali (la sezione delle vie respiratorie è maggiore nel maschio, mentre la depurazione muco-ciliare è funzione della circonferenza del condotto e non della sua area).
Differenze tra generi simili (anche se comprensibilmente meno cospicue) sono state riscontrate a Taranto per l’incidenza di patologie respiratorie da particelle fini inerti, che sono state attribuite proprio alla minore esposizione al rischio ambientale.
La conclusione? Certamente importante è che i tessuti femminili, meglio accuditi ed esposti ad uno stress ossidativo minore, hanno un invecchiamento biologico più lento, e quindi si difendono meglio dai danni prodotti dalle patologie infiammatorie.
Una considerazione finale? Non c’è dubbio che l’applicazione progressivamente sempre più rigorosa delle raccomandazioni del mondo della scienza medica da parte dei decisori politici ha avuto chiari effetti positivi sui parametri indicativi della mortalità immediata della popolazione, in particolare (ma non solo) della popolazione anziana. Ai sociologi e agli economisti spetterà il compito di valutare l’opportunità a termine meno breve di queste decisioni alla luce delle indicazioni che gli statistici forniranno circa gli effetti sulla mortalità (globale, inclusa cioè quella nel terzo mondo) causati dalla depressione economica mondiale prossima ventura. Alle persone di più lunghe vedute il compito se ringraziare o meno un nemico biologico che, con poco danno, ci ha costretto ad adottare comportamenti più sostenibili che, mantenuti nel tempo, salverebbero certamente molte più vite di quelle che in questi giorni sono state stroncate.
Infine forse merita ricordare che l’aria che inaliamo si libera delle particelle più grossolane, si riscalda e si umidifica nelle fosse nasali (riducendo così l’effetto della ventilazione di raffreddamento e di essiccamento delle mucose a valle); deflette poi di 90 gradi nel rinofaringe depositando molte PM10 sulla tonsilla faringea, che avvierà la produzione di anticorpi utili per la difesa delle vie aeree sottostanti ma non prive di rischi di ipersensibilità; rallenta poi progressivamente la sua discesa lungo l’albero bronchiale fin quasi a fermarsi, e così concede tempo (più breve in caso di iperventilazione) perché le particelle più piccole (quali le PM2,5) sedimentino sul film di muco ricco di IgA che le riporterà al faringe e poi all’esofago, spinto dal moto ciliare. Il processo richiede pochi minuti (meno del tempo di duplicazione dei batteri) purché si respiri col naso e quindi l’aria sia umida e calda, e nega a virus e batteri il tempo di aderire alla mucosa e moltiplicarsi. (Se l’aria è fredda e troppo secca il tempo si allunga favorendo l’infezione, perché il moto ciliare rallenta e il muco diviene troppo vischioso).
Una ultima aggiunta. Le ultime statistiche dicono che in Italia i toscani sono tra i più bravi a difendersi dal contagio, e che i livornesi sono i più bravi tra i toscani. Ecco i dati per provincia in termini di numero dei contagiati su mille abitanti: Livorno 1,0; Arezzo 1,2; Grosseto, Prato e Siena 1,3; Pisa e Pistoia 1,4; Firenze 1,8. Forse grazie ai “turisti covid” provenienti dal nord: Lucca (2,4) e Massa Carrara (3,8) sono le provincie più sfortunate.
*Past president della Gerontological society of America, Università Campus biomedico di Trigoria Roma e mebro della Fondazione Volterra Ricerche
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