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29 Aprile 2024

L'immagine del teatro San Marco all'epoca della scissione di Livorno (foto tratta da Antonia Teoli Blogspot)

Quel 21 gennaio del ’21 a Livorno


(Marco Ceccarini) Livorno, 21 gennaio 2021 – Era un venerdì quel 21 gennaio 1921, quando alcune decine di delegati al diciassettesimo congresso del Partito socialista, per lo più della frazione comunista ma anche della corrente massimalista, guidati da Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Nicola Bombacci, Egidio Gennari ed altri, molti dei quali avrebbero preso strade diverse, uscirono dal teatro Goldoni di Livorno, dove era in corso il congresso, per dirigersi al canto dell’Internazionale al teatro San Marco, dove fondarono il Partito comunista d’Italia, sezione italiana della Terza internazionale.

Motivo della scissione, avvenuta dopo sei giorni di acceso dibattito, fu l’accusa rivolta a Giovanni Bacci, il presidente di quell’assemblea congressuale, di essersi posto al di fuori dell’Internazionale. Un motivo reale che tuttavia era il riflesso di quanto si era venuto a creare negli ultimi due tre anni quando prima la rivoluzione d’ottobre che aveva portato i comunisti al potere in Russia e poi il “biennio rosso” con le rivolte operaie nelle grandi città industriali del Nord avevano fatto ritenere imminente anche in Italia la rivoluzione proletaria che doveva scoppiare a livello mondiale. In quel contesto giunse a maturazione la separazione tra l’ala di sinistra e il resto del Partito socialista.

Iniziò così, quel 21 gennaio del 1921 a Livorno, esattamente cento anni fa, l’avventura politica di quello che neanche vent’anni dopo sarebbe diventato il Partito comunista italiano, destinato ad affermarsi come la più grande organizzazione politica di massa della sinistra italiana del secondo Novecento, pilastro della democrazia e della Repubblica Italiana che esso stesso contribuì a realizzare.

Il Partito comunista d’Italia si poneva l’obiettivo di essere l’avanguardia della classe operaia. Doveva guidare la rivoluzione. Esso nacque come risposta allo scarto ideologico esistente tra socialisti e comunisti in merito alla posizione assunta da alcuni settori del Partito socialista sugli scioperi e sulle sollevazioni di vaste porzioni del mondo del lavoro tra il 1919 e il 1920. Molti socialisti avevano condannato il “biennio rosso”.

La concezione socialista secondo cui la vita sociale è determinata dallo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione, come ebbe a rilevare Togliatti, veniva intesa come un piatto determinismo economico. Il passaggio dallo Stato borghese alla società socialista era considerato un evento fatale e non era visto come una trasformazione graduale. Il fatto che la classe operaia dovesse mirare fin dall’inizio alla conquista del potere, cioè al socialismo, avendo le sue premesse oggettive nello sviluppo delle forze economiche, doveva essere chiaro fin dall’inizio. E questo, tuttavia, era proprio il punto che differenziava comunisti e socialisti.

Le lotte operaie del 1919 e del 1920 non avevano trovato nel Partito socialista lo strumento di traduzione politica di quelle stesse lotte. Il Partito comunista d’Italia, pertanto, nacque come risposta a quel limite e può dirsi quindi figlio di una sconfitta politica, quella della rappresentanza delle masse operaie da parte del Partito socialista, nonché di una parabola discendente che anche il Partito comunista d’Italia non ebbe la forza di arrestare e nelle cui pieghe si fece strada il Fascismo.

Su come raggiungere l’obiettivo si erano confrontate due tendenze, quella facente riferimento a Bordiga e quella facente riferimento a Gramsci, anche se in quest’ultima, che si sviluppava attorno al giornale Ordine Nuovo fondato dallo stesso Gramsci, già erano presenti alcuni dei presupposti che, su terreni diversi, avrebbero contribuito allo sviluppo del partito.

Tra il 1925 e il 1926 il Fascismo emanò una serie di norme giuridiche, comunemente dette “leggi fascistissime”, che avviarono la trasformazione dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia in regime totalitario di stampo fascista, portato poi a definitivo compimento, di fatto, solo nel 1939 quando, pur senza mutare lo Statuto del Regno, la Camera dei deputati sarebbe stata sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. Tra le conseguenze delle “leggi fascistissime” vi fu la messa al bando dei partiti politici, tra cui anche il Partito comunista d’Italia.

A partire dal 1926, dunque, il Partito comunista d’Italia iniziò ad operare clandestinamente sia all’estero, soprattutto in Gran Bretagna, Francia, Russia, che per quanto possibile anche in Italia.

Nel 1926 a Lione, in Francia, si svolse il terzo congresso del Partito, che vide l’elezione di Gramsci a segretario ed anche l’elaborazione delle cosiddette Tesi di Lione che segnarono la fine dell’egemonia di Bordiga all’interno del partito. Esse rappresentarono un’importante svolta politica.

Il Partito comunista d’Italia visse in quel periodo una storia complessa e nient’affatto semplice pagando a caro prezzo la contrapposizione al regime. Gli anni Venti e Trenta, inoltre, furono travagliati anche all’interno dell’Internazionale comunista. Videro il dispiegarsi della politica del social-fascismo in contrapposizione ai fronti popolari. La guerra di Spagna fu la prova generale dello scontro tra fascisti e comunisti e in definitiva della seconda guerra mondiale. Furono tuttavia anche gli anni del patto segreto firmato da Vjačeslav Molotov e Joachim Von Ribbentrop che stabiliva la non aggressione reciproca tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica.

Il 15 maggio 1943, a seguito dello scioglimento dell’Internazionale comunista, sotto la guida di Togliatti, il Partito assunse la nuova denominazione di Partito comunista italiano. Lo scioglimento dell’Internazionale era stato richiesto da Iosif Stalin per rassicurare gli Alleati occidentali che erano impegnati al fianco dell’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale. La seconda guerra mondiale era in corso ed occorreva tatticismo. I comunisti, in Italia, stavano svolgendo un’attività politica intensa con i propri emissari. Proprio in quel periodo, grazie alla presenza dei propri militanti sul territorio e al rischio che correvano, dato che dovevano agire in modo segreto, il Partito prese a diventare un punto di riferimento fondamentale nella lotta al Fascismo.

Con la caduta del regime fascista, avvenuta a seguito della defenestrazione di Benito Mussolini il 25 luglio 1943 e dell’armistizio firmato a Cassibile il successivo 8 settembre, il Partito comunista italiano iniziò ad operare legalmente nei territori controllati dal nuovo Regno d’Italia e in quelli che gradualmente venivano liberati, partecipando attivamente alla costituzione di formazioni partigiane nelle province ancora sotto il controllo dei tedeschi e della Repubblica di Salò.

Il Pci si caratterizzò come la forza più attiva nell’ambito della Resistenza italiana. La maggior parte degli aderenti alla Resistenza apparteneva al Pci. Le brigate Garibaldi, promosse dai comunisti, rappresentarono circa il 60 per cento delle forze partigiane. Il Pci mirava a fare in modo che, attraverso l’adesione delle masse popolari alla lotta partigiana, l’Italia facesse ingresso nella modernità. La guerra di liberazione, per il Pci, aveva questo obiettivo.

Avendo preso parte ai primi governi dell’Italia libera fin dal 1944, dopo la liberazione di Milano il 25 aprile 1945, che consegnò l’intero territorio nazionale a una nuova fase della propria storia, il Partito comunista italiano partecipò ai governi di unità nazionale e il suo segretario politico, Togliatti, fu anche vicepresidente del consiglio dei ministri per un breve periodo e ministro della Giustizia.

Sempre affondando le radici nella Resistenza, cui aveva preso parte con i suoi militanti, nell’immediato secondo dopoguerra il Pci operò la sua più profonda svolta politica. La stella polare rimase sempre la lotta al Fascismo e l’impegno delle formazioni partigiane contro i tedeschi ed i repubblichini di Salò, obiettivo ultimo restò la trasformazione della società in senso socialista, ma gradualmente il Partito si inserì nel gioco democratico divenendo esso stesso uno dei perni della democrazia italiana che nasceva dalla guerra di Liberazione e dalla sconfitta del Nazifascismo in Europa.

Togliatti, fin da subito, attuò una politica di collaborazione con le forze cattoliche e democratiche, liberali e socialiste, nell’ottica di ricomporre l’unita delle forze popolari che avevano collaborato nel Comitato di liberazione nazionale. Il mondo si stava dividendo sulla base degli accordi di Yalta, da una parte si componeva il mondo occidentale sotto l’egemonia statunitense e dall’altra il blocco socialista sotto l’egida sovietica, per il Pci, dunque, occorreva attuare una strategia in grado non solo di non perdere il consenso delle masse popolari acquisito durante gli anni della Resistenza ma anche di incrementarlo, non perdendo di vista l’obiettivo finale. La cosiddetta “guerra fredda” iniziava a prendere forma e con questa nuova realtà occorreva fare i conti.

In questa situazione Togliatti capì che la via d’uscita era battersi per una transizione al socialismo attraverso la via parlamentare, secondo il concetto di egemonia gramsciana, proponendo la “via italiana al socialismo”. Se il Pci avesse adottato una strategia di scontro, con ogni probabilità, sarebbe stato fortemente ridimensionato e relegato al ruolo di partito anti-sistema. Scopo della classe dirigente comunista, che con pieno diritto si sentiva parte integrante del processo di costruzione della nuova Italia, era invece, e fu, quello di consolidarsi come componente essenziale della nascente democrazia. Fu anche e soprattutto per questo che i deputati comunisti alla Costituente, supportati da un’organizzazione politica che andava sempre più radicandosi ed incrementandosi, parteciparono con determinazione e decisione all’elaborazione di quella che ancora oggi, al di là delle mutilazioni, può essere definita la Costituzione più bella del mondo.

Passato all’opposizione nel 1947 nel momento in cui la Democrazia cristiana decise di estromettere le sinistre dal governo dopo che Alcide De Gasperi aveva stretto accordi con gli Stati Uniti per collocare l’Italia nella sfera d’influenza del colosso nordamericano, il pur dialogante Pci, totalmente contrario all’adesione italiana al blocco filo-statunitense, prese a rafforzare la propria organizzazione secondo la concezione del partito di massa. Esemplificativo, per far capire l’intento dei dirigenti comunisti dell’epoca nel voler radicare il partito sul territorio, fu lo slogan “una sezione per ogni campanile” che contraddistinse l’evoluzione di un partito che sul piano ideologico rimaneva contrapposto al sistema di governo della società nazionale in cui agiva perseguendo il socialismo e rimanendo fedele all’Unione Sovietica.

Enorme fu lo sforzo profuso dal Pci negli anni Cinquanta. Accanto alle sezioni e alle cellule del Partito che proliferavano come funghi, oltre ai sindacati, sorsero giornali, circoli ricreativi per l’aggregazione dei giovani e degli anziani, gruppi sportivi e culturali, cooperative di consumo, compagnie assicuratrici e perfino istituti bancari, centri ed organizzazioni di ogni tipo, tutto per dare forza a un’idea, a un progetto, a un sogno: costruire una società in cui, come aveva detto Karl Marx, ognuno deve avere secondo le sue capacità ma anche avere secondo i suoi bisogni.

Con la morte di Josif Stalin, avvenuta nel marzo 1953, anche in Italia, all’interno del movimento comunista, qualcuno iniziò ad esprimere i primi timidi ed esitanti dubbi sull’Unione Sovietica. Il motivo venne fornito, a giugno, dai moti scoppiati in Germania Est quando uno sciopero di operai e manovali edili si trasformò in una rivolta contro il governo. I tumulti furono repressi dalle forze sovietiche nell’indifferenza della comunità internazionale. Pochi non rimasero in silenzio. Quei pochissimi che all’interno del Pci tentarono di sviluppare un dibattito sull’Unione Sovietica vennero bollati come controrivoluzionari ed espulso dal Partito. D’altronde gli stessi scioperi di Berlino Est, all’interno del movimento socialcomunista italiano, vennero interpretati come etero diretti dalle forze capitaliste. Per avere la prima vera analisi critica sul colosso sovietico si sarebbe dovuto attendere altri tre anni all’indomani dei fatti di Ungheria.

Nel febbraio 1956, durante il ventesimo congresso del Partito comunista sovietico, Nikita Sergeevič Chruščëv diede avvio con la denuncia dei crimini del regime alla cosiddetta destalinizzazione. Ciò ebbe non poche ripercussioni sulla sinistra italiana. La linea del Pci diede seguito alla svolta che si tradusse nella volontà di rafforzare la “via italiana al socialismo” che, si precisò, consisteva nell’accentuare il vecchio obiettivo del raggiungimento di una “democrazia progressiva” applicando integralmente la Costituzione italiana.

Tuttavia, quando nell’ottobre dello stesso 1956 scoppiò la cosiddetta rivoluzione ungherese del 1956, che altro non fu che una sollevazione dello spirito antisovietico in nome del “socialismo dal volto umano”, il Pci non esitò a schierarsi, ufficialmente, al fianco dell’Unione Sovietica, anche se al proprio interno si produsse quel dibattito e quel confronto sul regime sovietico che tre anni prima non c’era stato e che vide, alla fine dei conti, l’allontanamento di alcuni esponenti anche illustri come Antonio Giolitti e Romano Bilenchi.

La linea politica non mutò dopo la morte di Togliatti, avvenuta a Yalta, in Crimea, nell’estate 1964. Luigi Longo continuò sulla strada dell’amicizia e della lealtà del Pci all’Unione Sovietica. Neanche l’introduzione nel dibattito interno di una graduale e progressiva critica all’operato del Pcus fece sì che l’atteggiamento nei rapporti internazionali non si traducesse in una rottura dei rapporti con il partito sovietico. Ciò, semmai, portò a crisi e frammentazioni con militanti ed intellettuali, dirigenti e componenti di sinistra e libertarie che fuoriuscivano o mettevano in discussione la linea politica, ma i casi di rottura furono pochi e tutti dopo la cosiddetta Primavera di Praga quando i carri armati sovietici, per la terza volta in quindici anni, andarono a “ristabilire l’ordine” in Paese “amico”.

Dal gennaio all’agosto 1968, a seguito di regolari elezioni, in Cecoslovacchia si ebbe un periodo di liberalizzazione politica. Il Paese, che era sottoposto al controllo dell’Unione Sovietica, venne però ricondotto con la forza nell’alveo dei Paesi filo sovietici.

Il fatto che gli interventi militari sovietici nei Paesi dissidenti non venissero sufficientemente o per niente stigmatizzate, fece sì che molti comunisti iniziassero a criticare o prendere le distanze dal gruppo dirigente del Pci. Alcuni di loro, riunti intorno alla rivista Il Manifesto, furono addirittura espulsi, come già accaduto in altre circostanze. Ciò creò una frattura che non si sarebbe più completamente rimarginata. A partire da quegli anni, tra l’altro, molte sigle di ispirazione comunista si formarono alla sinistra del Pci, contestando l’adesione al realismo sovietico.

Enrico Berlinguer arrivò alla guida della segreteria politica del Pci nel 1972 dopo che il Pci aveva pesantemente pagato le conseguenze della sua presa di posizione nelle vicende di Praga. Comprese che era necessario avviare un processo di distanziamento dall’Unione Sovietica ed elaborare un modello alternativo che mettesse al centro la peculiarità dei partiti comunisti dell’Europa occidentale.

Il progetto politico-ideologico dell’Eurocomunismo fondava il proprio presupposto su un marxismo intermedio al leninismo e al socialismo democratico, proponendo una forma di comunismo sviluppato in senso riformista e democratico.

Il progetto, annunciato a Livorno nel luglio 1975 da Berlinguer e Santiago Carillo, quest’ultimo segretario del Partito comunista spagnolo allora fuorilegge a causa della dittatura franchista in Spagna, coinvolse i tre principali partiti comunisti dell’Europa occidentale, il Partito comunista italiano, il Partito comunista francese e il Partito comunista di Spagna. Inoltre aveva l’appoggio del Partito comunista della Gran Bretagna.

Berlinguer non scelse a caso la città di Livorno. Era infatti la città della scissione gramsciana. I comunisti italiani e spagnoli, in quella sede, dichiarano che, nella concezione di un’avanzata democratica al socialismo, nella pace e nella libertà, si doveva esprimere un convincimento strategico, il quale nasceva dalla riflessione sull’insieme delle esperienze del movimento operaio e sulle condizioni storiche specifiche dei rispettivi Paesi, nella situazione europeo-occidentale. La prospettiva di una società socialista, secondo l’Eurocomunismo, doveva nascere dalla realtà delle cose ed aveva come premessa la convinzione che il socialismo si poteva affermare, in Europa occidentale, solo attraverso lo sviluppo e l’attuazione piena della democrazia, con alla base l’affermazione del valore delle libertà personali e collettive e della loro garanzia, dei principi della laicità dello Stato, della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti in una libera dialettica, dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose, della libertà di espressione, della cultura, dell’arte e delle scienze.

Il ruolo svolto da Berlinguer nel movimento comunista internazionale è stato dunque di grande importante, anche se il suo progetto, almeno al momento, sembra essersi arenato. A livello planetario ha gettato un seme che forse, adesso, alla luce di quanto accaduto negli ultimi due o tre decenni, potrebbe essere rivitalizzato e rilanciato nei contenuti come progetto politico sovranazionale.

In Italia, invece, Berlinguer teorizzò e tentò di realizzare, collaborando con Aldo Moro, il compromesso storico con la Dc, promosso da una parte nell’ottica di ricomporre l’unita delle forze popolari che avevano combattuto assieme nella Resistenza, dall’altra per dare una risposta a un Paese che in quel momento era percorso da una forte crisi economica, da tentativi di eversione e da colpi di Stato organizzati e fortunatamente non portati a termine, ma anche dalla lotta armata, dai movimenti del Sessantotto e del Settantasette, in quel contesto di “anni di piombo” e di “notte della Repubblica”, per usare termini giornalistici, che furono le stagioni italiane fino ai primi anni Ottanta.

Partendo dal presupposto che la democrazia è al tempo stesso un terreno su cui l’avversario di classe è costretto a retrocedere e il valore universale su cui fondare un’originale società socialista, Berlinguer fece del Pci un grande partito riformista di massa, un partito che aveva come fine ultimo la costruzione del socialismo attraverso la via democratica, ma nel frattempo si poneva di trasformare l’esistente, introducendo un sistema di benessere e diritti economici e sociali, nella convinzione che quella era la strada privilegiata da percorrere per arrivare alla democrazia socialista.

Con Berlinguer il Pci raggiunse l’apice del suo consenso. Nel 1976 più di un elettore su tre votò Pci, che dunque quasi appaiò la Dc, mentre sull’onda emotiva dell’improvvisa scomparsa dello stesso Berlinguer, nel giugno 1984, divenne addirittura il primo partito italiano, anche se in termini di voti conseguiti ebbe qualcosa in meno rispetto ad otto anni prima.

Eppure, da lì a poco, il Pci imboccò la strada dello scioglimento. Con la caduta del muro di Berlino e la crisi del sistema dei Paesi comunisti, tra il 1989 e il 1991, sull’onda della ristrutturazione economica in senso capitalistico e della mondializzazione che all’inizio non fu compresa nelle sue devastanti conseguenze, ma della quale oggi patiamo i colpi di coda della crisi funzionale alla sua rigenerazione, il Partito si sciolse su iniziativa del segretario Achille Occhetto, dando vita da una parte a una nuova formazione politica di stampo socialdemocratico, ossia il Partito democratico della sinistra, dall’altra a Rifondazione comunista.

Che il Pci potesse arrivare alla conclusione della sua parabola politica e trasformarsi, alla luce di quanto stava accadendo nei Paesi dell’Est, poteva essere una delle prospettive possibili. Ma Occhetto non seppe realmente interpretare quanto stava accadendo in quei mesi in Europa e nel mondo. Il superamento del Pci, per come da lui posto, apparve come la liquidazione di una storia e soprattutto l’abiura di un partito che in Italia aveva costruito e difeso la democrazia.

La risultanza della fretta e delle modalità con cui la trasformazione del Pci in Pds venne portata a termine fu che Occhetto e il gruppo a lui facente capo pose fine alla ricerca della via autonoma al socialismo che aveva contraddistinto l’elaborazione teorica del più grande partito comunista dell’Occidente, producendo l’inevitabile conseguenza, quasi certamente contro la stessa volontà dei Promotori, di “normalizzare” la democrazia italiana, consegnando al contempo a un partito di mera opposizione come Rifondazione il tentativo di ricomporre le diverse culture comuniste, che il nuovo soggetto, specie a partire dalla segreteria di Fausto Bertinotti, ha cercato di coniugare con le istanze movimentiste per i diritti civili.

Occhetto spiegò i motivi della sua scelta con la necessità di superare la “conventio ad excludendum” in virtù della quale le forze laiche, socialiste e cristiane, coalizzandosi a prescindere dalle proposte del Pci, escludevano sistematicamente quest’ultimo dal governo del Paese. Questa “conventio” produceva una democrazia monca o comunque incompiuta ed Occhetto affermò che la sua svolta, una volta attuata, avrebbe eliminato il presupposto originario di tale esclusione.

In realtà quello che si produsse, il Pds, fu un soggetto politico senz’anima e senza radicamento, di vago stampo socialdemocratico, interessato alla gestione del potere amministrativo, privo di quella carica propulsiva che aveva avuto il Pci.

E’ assai probabile che, con il tempo, la necessità di dar vita a una nuova formazione politica, magari a un Partito del lavoro di stampo socialista, capace di coniugare in termini moderni gli insegnamenti di Marx e Lenin, si sarebbe presentata e sarebbe stata compiuta. Ma essa doveva avvenire senza la rinuncia alla tradizione, alla storia, al radicamento, all’organizzazione e ai quadri del vecchio Pci.

La nascita di un partito senza matrice ideologica o semplicemente ideale ha reso, questo sì, monca la democrazia italiana, eliminando l’organizzazione politica che fino a quel momento aveva agito da stimolo nel gioco democratico dell’Italia repubblica e che inevitabilmente aveva condizionato la vita politica ed amministrativa del Paese raggiungendo importanti risultati come l’introduzione del sistema sanitario pubblico e gratuito, la riforma della scuola, l’allargamento dell’assistenza sociale e la riforma delle autonomie locali, contribuendo assieme ad altri partiti a varare lo Statuto dei lavoratori e ad introdurre l’aborto, il divorzio e più in generale il nuovo diritto di famiglia, tutti pilastri del nostro odierno vivere civile.

Paradossalmente proprio la caduta del muro di Berlino, utilizzata da Occhetto come “scusa” per far nascere il Partito democratico della sinistra, avrebbe potuto smarcare definitivamente il Partito comunista italiano, che negli anni aveva assunto una posizione di aperta critica verso il sistema sovietico, liberandolo verso un socialismo umanitario, verso un pensiero comunismo sviluppato in senso riformista e democratico, lasciando all’evoluzione delle cose e dei fatti, allo spirito dei tempi, il nodo della sua trasformazione in qualcosa di diverso, purché nella continuità. Invece così non è stato. E il 31 gennaio 1991, esattamente settant’anni dopo Livorno, il Partito comunista italiano di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, avanguardia della classe operaia e della democrazia, ha cessato di esistere.

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