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27 Aprile 2024

Tra sogni e speranza in un futuro diverso il Pci è tornato a Livorno (prima parte)


(Marco Ceccarini) Livorno, 28 novembre 2019 – Quando alle scorse amministrative, sulla scheda, hanno visto quel nome e quel simbolo, in molti devono essere stati, anche a Livorno, coloro che hanno avuto un sussulto. Non pochi lo hanno votato. Ed altrettanti, forse, gli hanno dato appuntamento alla prossima, perché quella falce e quel martello in campo rosso col tricolore sotto, per tantissimi anni, ha rappresentato un modo di essere, l’aspirazione verso un mondo migliore, verso il socialismo.

Stiamo parlando del Partito comunista italiano, o Pci, il più grande partito comunista dell’Occidente, che ha fatto la storia d’Italia e della democrazia italiana. Quel partito, archiviato a Rimini nel febbraio 1991, è stato ricostituito nel giugno 2016 a San Lazzaro di Savena, non distante dalla Bolognina, dove Achille Occhetto, l’ultimo segretario, nel novembre 1989 annunciò il superamento del partito storico.

Il Partito comunista d’Italia, sezione italiana della Terza internazionale od Internazionale comunista, aveva visto la luce a Livorno nel gennaio 1921 a seguito di una scissione consumatasi all’interno del Partito socialista, che al teatro Goldoni stava svolgendo il suo diciassettesimo congresso. Si narra che i comunisti, capeggiati da Antonio Gramsci ed Amadeo Bordiga, uscirono dal Goldoni cantando l’Internazionale per andare a fondare il nuovo partito al teatro San Marco.

Entrato in clandestinità dopo la messa al bando del 1925, durante il regime fascista aveva visto i suoi maggiori esponenti perseguitati e mandati al confino, costretti ad espatriare od incarcerati. Tra questi, il segretario politico Gramsci, internato nel carcere di Turi. Il partito era attivo nella Resistenza e nella lotta di Liberazione nazionale. Ma nel maggio 1943, a seguito allo scioglimento della Terza internazionale, mutò il nome in Partito comunista italiano. E nella primavera 1944, sotto la guida di Palmiro Togliatti, accolse la prospettiva di un governo di unità nazionale con le altre forze del Comitato di liberazione, una volta sconfitto il Fascismo, accettando il sistema democratico parlamentare.

Riferimento delle classi subalterne, il Pci è stato la stella polare di chi in Italia lottava per i diritti economici, sociali e civili. Pur non essendo mai stato al governo, ad eccezione dell’immediato secondo dopoguerra quando partecipò all’esecutivo di unità nazionale, ha ugualmente contribuito a governare il Paese, secondo quella modalità collaborativa, tipica della Prima Repubblica, che ha portato ad importanti conquiste come la riforma agraria, la scala mobile, il blocco dei licenziamenti, lo statuto dei lavoratori, la riforma della scuola, il sistema sanitario nazionale, il diritto di famiglia, l’aborto e il divorzio.

Il fatto che per decenni abbia rappresentato più di un quarto dell’elettorato italiano, che abbia amministrato importanti città e regioni ed abbia avuto dei leader capaci di adeguare l’organizzazione e la cultura politica al mutare dei tempi, ha fatto sì che, pur senza entrarvi, il Pci sia tornato nell’area di governo nella seconda metà degli anni Settanta sotto la guida di Enrico Berlinguer con la fase della cosidetta “solidarietà nazionale” voluta dallo stesso Berlinguer e dal segretario democristiano Aldo Moro. I due leader volevano unire le grandi anime del popolo italiano, quella laica e quella cattolica, ma anche fare in modo che tutte le forze democratiche, Pci compreso, fossero unite nella lotta al terrorismo. Proprio per impedire l’alleanza tra Pci e Dc, nel 1978, le Brigate Rosse rapirono Moro e lo uccisero.

Eppure la storia del Pci è stata bruscamente interrotta dalla “svolta” di Occhetto nel novembre 1989, esattamente trent’anni fa.

Ai primi di novembre, dopo che era stato eletto segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, Mikail Gorbaciov aveva iniziato il processo di occidentalizzazione del Paese acuendo, di fatto, la crisi delle democrazie popolari. In quel contesto internazionale, con la crisi dell’Europa orientale che sembrava speculare all’apparente splendore dell’Occidente neoliberista, era caduto il muro di Berlino, con la filosovietica Germania Est che, subito, aveva annunciato l’apertura delle frontiere con la Germania Ovest, dando il chiaro segnale che l’ordine di Yalta delineato nel febbraio 1945, che aveva diviso il mondo in blocchi, era ormai al tramonto. Occhetto, probabilmente, interpretò questi accadimenti come un ineluttabile segno del destino.

Erano i giorni, quelli, in cui si celebrava il 45esimo anniversario della battaglia della Bolognina, il rione di Bologna dove nel novembre 1944 un gruppo di partigiani aveva inflitto importanti perdite ai tedeschi e ai fascisti che controllavano la città. Il leader del Pci andò in modo non programmato a tali celebrazioni. Ma una volta alla Bolognina, invece di rievocare i fatti, lanciò la bomba che fece deflagrare il partito. Agli ex partigiani, facendo riferimento a Gorbaciov che prima di dare il via ai cambiamenti in Unione Sovietica aveva incontrato i veterani, disse che occorreva andare avanti con lo stesso coraggio che era stato da loro dimostrato durante la Resistenza, chiedendo il superamento del Pci. In particolare, affermò che era necessario “non continuare su vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso”. E alla domanda se ciò lasciasse presagire anche il cambio del nome, Occhetto rispose: “Lasciano presagire tutto”.

Per molti militanti comunisti, per coloro che avevano passato la vita a montare e smontare le feste dell’Unità, che avevano fatto volontariato a tutto spiano a favore del partito e creduto nel socialismo, fu un colpo al cuore. Questa volta, infatti, non era come in passato, quando le discussioni sul nome erano tramontate sul nascere perché percepite come pleonastiche. Questa volta si faceva sul serio. Era il segretario politico che proponeva la questione del nome. Lo smarrimento s’impadronì della base.

La discussione sul nome, in verità, aveva avuto altri momenti di confronto. Nel 1985, ad esempio, l’ex deputato comunista Guido Carandini aveva sostenuto che, per salvare il Pci, occorreva abbandonare il centralismo democratico, avviare la rivalutazione della socialdemocrazia e pensare al cambio della denominazione, indicando il nome di Partito democratico del lavoro. Ma quel dibattito, come altri, non aveva avuto seguito. Era stato bollato come “nominalistico” ed archiviato da Alessandro Natta, il segretario che aveva sostituito Berlinguer dopo la prematura scomparsa avvenuta nel giugno 1984.

Il dibattito sul nome, negli anni Ottanta, aveva trovato linfa vitale nella crisi del movimento operaio e nelle prime sconfitte del partito. Dopo lo straordinario successo alle Europee del 1984, ottenuto però sull’onda emotiva della scomparsa di Berlinguer, il Pci aveva infatti inanellato una serie di sconfitte che lo avevano profondamente scosso. Solo nel 1985 c’erano state la pesante sconfitta al referendum sulla scala mobile e lo stop alle amministrative. Alle politiche del 1987, per la prima volta nella sua storia, aveva subito un arretramento, mentre il Psi, che fino al 1978 era sembrato sul punto di scomparire, sembrava addirittura in grado di operare il sorpasso proprio sui comunisti. Con tutto ciò, nonostante il dibattito, il settimanale satirico Tango, che usciva in allegato con l’Unità, ironizzò: “Chiamiamolo Mario”.

Tra la fine del 1988 ed i primi del 1989, alimentato dalle trasformazioni messe in atto da Gorbaciov, riprese vigore il dibattito sul nome, che questa volta, però, trovò terreno fertile in Occhetto, frettolosamente eletto nel giugno 1988 dopo che Natta era stato colpito da un leggero infarto. Il nuovo segretario del Pci, affascinato dal leader sovietico, credeva di poter riproporre in Italia il percorso avviato da quest’ultimo a Mosca. Il quadro generale, d’altronde, sembrava dargli ragione. Si avvertiva che qualcosa di epocale stava per accadere ad Est. In diversi sostenevano che tali eventi avrebbero giocoforza condizionato il futuro del Pci. Non a caso, nel febbraio 1989, il leader dei miglioristi, Giorgio Napolitano, aveva auspicato il cambio del nome chiedendo che questo fosse legato a degli eventi, bocciando l’idea di ribattezzarlo Partito democratico, nome secondo lui troppo vago, dicendosi invece favorevole a Partito del lavoro, denominazione ancorata alla tradizione socialista. Un’idea, quella di Napolitano, che vedeva consenziente Occhetto. Ma che molti, dentro e fuori il partito, ritenevano non pertinente. Vale la pena ricordare, a questo proposito, il punto di vista di Giulio Andreotti, esponente di spicco della Democrazia cristiana, che, dopo aver riconosciuto al Pci di essere stato un “elemento essenziale della vita politica italiana, nel costruire la Repubblica”, disse che “non è il nome da cambiare, bisogna abbandonare qualunque eventuale nostalgia per formule passate”.

In ogni caso, presupponendo il cambio dell’organizzazione e dei riferimenti politici, il cambio del nome doveva essere il punto di arrivo di un percorso complesso, lungo ed articolato, capace di coinvolgere la base, renderla protagonista, per non liquidare i contenuti del partito e non svendere la tradizione democratica dei comunisti italiani. Invece Occhetto, pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino, senza nessun preventivo coinvolgimento della base, annunciò che era giunto il momento di cambiare il nome e la prospettiva politica, richiamando la necessità di dar vita a un partito progressista non più esclusivamente ancorato alla tradizione del movimento operaio e socialista. Ciò venne vissuto, inevitabilmente, come un tradimento dell’identità e della dignità da gran parte della base. Tale proposta suscitò una divisione gigantesca, tanto che, nella realtà, la svolta di Occhetto fece saltare tutto quello che poteva saltare in aria.

“Il processo avviato alla Bolognina da Occhetto offrì, se mai ve ne fosse stato bisogno, un vantaggio formidabile ai poteri della conservazione e alle classi dirigenti più retrive del Paese”, spiega Patrizio Andreoli, primo segretario regionale del nuovo Pci e membro della segreteria nazionale, dove ricopre il ruolo di responsabile dell’organizzazione. Andreoli, che all’epoca della Bolognina aveva già avuto importanti incarichi nel vecchio Pci e che in Rifondazione e poi nel Pdci è stato un dirigente locale, aggiunge: “La distruzione del soggetto che nel Novecento aveva con più coerenza rappresentato le spinte e le attese di liberazione degli sfruttati, fu un tragico e pesante errore, una responsabilità grave assunta dinnanzi alla storia, alle lotte e al cammino di emancipazione delle classi subalterne. L’errore dell’ultimo segretario del Pci e della parte di gruppo dirigente che lo sostenne nell’operazione, fu il ritenere superato sul terreno politico e culturale lo scontro tra capitale e lavoro, l’insieme delle battaglie sociali e della cultura di classe che avevano sostenuto un’altra idea della vita e del mondo, in una parola l’orizzonte stesso di una necessaria e possibile società socialista”.

Occhetto aveva previsto una possibile opposizione, ma quello che non aveva previsto fu la proporzione, che si rivelò vastissima, di tale opposizione. Nel partito, infatti, si accese una discussione molto aspra e il dissenso verso il segretario fu notevole. Era la prima volta che nel Pci accadeva una cosa del genere. Coinvolse ampi settori della base e molti dirigenti locali e nazionali si schierarono contro. L’ex segretario Natta, Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Armando Cossutta e tanti altri si opposero in maniera convinta. La situazione, insomma, sfuggì di mano ad Occhetto e ai suoi sostenitori, che dovettero indire un congresso straordinario, che poi divennero due, per decidere sulla proposta.

Il primo congresso si tenne a Bologna nel marzo 1990. Tre furono le mozioni che si contrapposero. La prima era quella di Occhetto, che proponeva una nuova formazione democratica e riformatrice aperta a componenti laiche e cattoliche. La seconda, sottoscritta da Ingrao, chiedeva al Pci di rinnovarsi nella politica e nell’organizzazione senza smarrire sé stesso. La terza, presentata da Cossutta, chiedeva l’ortodossia del partito. La vittoria della prima mozione consentì la rielezione di Occhetto e la conferma della sua linea politica. Decisamente buono fu il risultato della seconda, residuale quello della terza. Cosicché, quando si arrivò al successivo congresso di Rimini, nel febbraio 1991, fu chiaro che l’ultima assise del Pci, oltre a ratificare il nuovo partito voluto da Occhetto, avrebbe sancito anche la nascita di una nuova formazione comunista. E così fu. A Rimini, oltre alla mozione di Occhetto che stavolta chiedeva esplicitamente la nascita del Partito democratico della sinistra, vi era una seconda capeggiata da Antonio Bassolino che voleva la trasformazione del Pci in un nuovo partito riformatore collegato alla tradizione comunista e una terza che univa le precedenti mozioni di Ingrao e Cossutta. Vinse in modo chiaro la proposta del segretario. Quasi nullo fu il consenso ottenuto dalla mozione intermedia di Bassolino e meno voti della somma delle precedenti mozioni separate ottenne quella unitaria di Ingrao e Cossutta, che chiedeva il mero rinnovamento del Pci.

Come a Livorno nel gennaio 1921, anche a Rimini nel febbraio 1991 i comunisti uscirono dal congresso, non prima però, questa volta, di aver aspettato l’esito finale con la proclamazione del nuovo Pds. Immediatamente dettero vita al Movimento per la rifondazione comunista. Cofondatori, con Cossutta, furono Ersilia Salvato, Lucio Libertini e Sergio Garavini, che venne eletto coordinatore nazionale. Il dichiarato fine del Mrc era ricostituzione del Pci. Garavini e Cossutta, in prima battuta, cercarono di mantenere il logo e la denominazione, ma l’erede legale era il Pds, che glielo negò, così i rifondatori, dopo aver inglobato Democrazia proletaria e il Partito comunista d’Italia marxista-leninista, dettero vita al Partito della rifondazione comunista, comunemente detto Rifondazione comunista o Prc, al quale aderirono poi, negli anni, tutti o quasi quei comunisti, tra cui Ingrao, che inizialmente avevano aderito al Pds. (1 – continua)